Un lusso anche i contratti di serie B Nessuno pensa al Welfare dei figli
LETTERA SUL LAVORO
Caro Direttore, il ministro Renato Brunetta ha molta ragione
quando avverte che il diritto del lavoro, e in particolare l’articolo
18 dello Statuto del 1970, oggi si applica soltanto ai padri e non ai
figli. Gli italiani, però, hanno diritto di sapere che cosa il ministro
propone seriamente— e non soltanto con una battuta in un talk show —per
superare il regime di apartheid che penalizza la nuova generazione di
lavoratori.
È vero: da anni, ormai, a un ventenne o trentenne che cerca
lavoro in Italia le aziende offrono di tutto, tranne che un rapporto di
lavoro regolare. E anche un rapporto di lavoro di serie B —«a
progetto», o comunque a termine— è già considerato, in molte
situazioni, un privilegio difficilmente ottenibile, rispetto alla
«normalità», costituita dal lavoro di serie C: stage semigratuiti in
azienda tutto lavoro e niente formazione, assunzione con partita Iva
per mansioni d’ufficio, di cantiere, di negozio, di call center, di
magazzino, che erano tradizionalmente considerate come lavoro
dipendente. Case editrici in cui da anni non si assume più un redattore
o un correttore di bozze con un contratto normale di lavoro dipendente;
case di cura private che formalmente non hanno alle proprie dipendenze
neanche un solo medico, un solo infermiere, un solo barelliere: tutti a
partita Iva, oppure soci di cooperative di lavoro a cui il servizio
viene appaltato.
Stessa musica nel settore pubblico, dove ormai domina sempre più
diffusamente l’«esternalizzazione» delle funzioni mediante cooperative
e altri appaltatori, che utilizzano ogni forma di lavoro atipico.
Accade pure che dopo un periodo più o meno lungo di anticamera anche un
ventenne o trentenne finisca coll’ottenere l’agognato posto di lavoro
stabile regolare; ma il punto è che il datore di lavoro ha di fatto la
possibilità di scegliere che il lavoratore, anche se sostanzialmente
dipendente, resti escluso dalla protezione regolare per decenni. In
altre parole: il diritto del lavoro sta perdendo la sua natura di
standard minimo di trattamento universale, per assumere la natura di un
ordinamento eminentemente derogabile: chi vuole lo applica e chi non
vuole no. Naturalmente, poi, quando viene la bufera, a pagare per primi
sono sempre i non protetti: i 500 mila lavoratori italiani che hanno
perso il posto nei mesi passati di recessione sono ovviamente quasi
tutti di serie B e C. Dunque: il ministro fa bene ad aprire gli occhi
su questa realtà, a riconoscere che il nostro mercato del lavoro e il
nostro sistema di protezione sociale non sono affatto «i migliori del
mondo», come egli stesso ci ha detto solo pochi mesi or sono. Ma deve
anche dire quale è la sua diagnosi del fenomeno e quale la terapia che
propone. Una cosa è certa: il problema non è soltanto di controlli e di
repressione delle frodi. Controllo e repressione servono quando la
violazione o elusione delle regole è un fenomeno marginale; quando
invece— come oggi accade per il nostro diritto del lavoro —violazione
ed elusione diventano un fatto normale su larga scala, è l’ordinamento
stesso che deve essere rifondato. La disciplina italiana del rapporto
di lavoro regolare è vecchia ormai di oltre quarant’anni. È stata
scritta quando non esistevano né i computer, né Internet, ma neppure i
fax e le fotocopiatrici; quando era normale che un giovane entrasse in
un’azienda con la prospettiva di restarci per trenta o quarant’anni
svolgendo la stessa mansione, più o meno con gli stessi strumenti e le
stesse tecniche. Oggi il tempo di vita di una tecnica produttiva (ma
anche di un prodotto o di un materiale) non si misura più in decenni,
ma in anni o addirittura in mesi; le imprese nascono e muoiono con un
ritmo incomparabilmente più rapido rispetto ad allora.
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Così stando le cose, la sicurezza economica e professionale dei
lavoratori non può più essere affidata al modello del «posto fisso». Ed
è in larga misura inevitabile che le imprese facciano di tutto per
eludere, nelle nuove assunzioni, una disciplina della stabilità del
lavoro, come quella dettata dall’articolo 18 dello Statuto del 1970,
che condiziona lo scioglimento del rapporto di lavoro per motivi
economici od organizzativi a un controllo giudiziale che può richiedere
due, quattro o sei anni; e al Sud anche otto o dieci. La soluzione,
allora, non è togliere l’articolo 18 ai padri, ma riscrivere il diritto
del lavoro per i figli, per le nuove generazioni; in modo che esso
torni capace di applicarsi davvero a tutti i rapporti che si
costituiranno da qui in avanti. E garantire davvero a tutti non
l’impossibile «posto fisso», ma quella protezione contro le
discriminazioni e quella rete di sicurezza nel mercato, da cui oggi la
nuova generazione dei lavoratori italiani è per la maggior parte
esclusa.