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DDL Gelmini, ovvero come regalare l’università pubblica ai privati. Analisi a cura dei Collettivi della Sapienza
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Ci siamo, l’università pubblica italiana quest’anno riceve il colpo di grazia!

Il ddl Gelmini è stato approvato in Consiglio dei Ministri e a breve
intraprenderà il suo iter parlamentare. L’attacco questa volta è
devastante, in nome di una falsa idea di merito si smantella
definitivamente l’università pubblica.

Mai come con questo disegno di legge vediamo regalare l’università
ai privati: nasce l’università azienda. Il Senato Accademico viene
svilito delle sue funzioni e poteri, assumendo un ruolo puramente
formale e divenendo completamente assoggettato al volere del Consiglio
di Amministrazione, come in ogni buona azienda che si rispetti.
Il nuovo consiglio di amministrazione, invece, assume il ruolo di
indirizzo strategico dell’ateneo, potendo decidere sulla introduzione e
soppressione di corsi di studio e sedi, oltre a svolgere i suoi soliti
incarichi, giudicando tutto in funzione di quello che è il suo unico
obiettivo: far quadrare i conti nelle casse dell’ateneo. Al tempo
stesso il Consiglio di Amministrazione sarà composto per almeno il
quaranta per cento da persone “non appartenenti ai ruoli dell’ateneo”,
in altri termini da privati. Si consente dunque ai privati di entrare
nella cabina di regia dell’università riformata ed impossessarsi così
della Fabbrica di Precari. Da sempre i privati hanno sfruttato il
sistema d’istruzione pubblico senza mai versare un soldo, intervenendo
solo là dove vedevano la possibilità di formare mano d’opera
specializzata e possibilmente con scarse capacità di riflessione
critica. Da ora in poi continueranno a non versare un euro, ma in
compenso potranno decidere come utilizzare i pochi fondi dei
finanziamenti pubblici e delle tasse degli studenti: a farne le spese
saranno i corsi di laurea e le linee di ricerca che non rientrano negli
interessi di mercato, perché finanziare corsi di Filosofia, Lettere
antiche od Ecologia che non servono neppure a formare precari
specializzati che non sarebbero utili a un mercato già saturo? Meglio
invece utilizzare le risorse economiche per creare corsi a veloce
obsolescenza, ma funzionali al bisogno immediato di manodopera!
Gli elogi che arrivano da Confindustria a questa riforma sono presto
spiegati; ci troviamo di fronte ad una privatizzazione di fatto
dell’università italiana: le privatizzazioni italiane dagli anni
novanta in poi sono state realizzate attraverso la trasformazione di
enti pubblici in S.p.a e successiva vendita delle azioni ai privati,
che così investivano il loro capitale. Sull’università non si poteva
agire allo stesso modo, sarebbe stato inopportuno e avrebbe palesato le
vere finalità della riforma; inoltre con la previsione della finalità
di lucro dell’università si sarebbero sollevati anche gli animi più
quieti e disinteressati.
Inoltre è sempre vigente l’articolo 16 del decreto legislativo 180 che
permette la trasformazione delle università in fondazioni di diritto
privato con un semplice voto del senato accademico: se si considera che
molte università avranno i bilanci in rosso non sarà raro vedere
rettori e i nuovi direttori generali, figura puramente aziendale
introdotta da questa riforma, chiedere elargizione di fondi ai privati,
i quali acquisiranno enorme potere di ricatto e di condizionamento
anche delle scelte del senato accademico.

Un altro pilastro di questa riforma è la previsione di un fondo
speciale per il merito per gli studenti “eccellenti”, fondo gestito
dalla Consap s.p.a. ed elargito dal ministero dell’economia. Tra i
criteri di assegnazione delle borse erogate da questo fondo non è
incluso il reddito. Inoltre sempre il Ministero dell’Economia, di
concerto con quello dell’Istruzione, avrà il diritto di scegliere chi
potrà accedere a questi fondi. Qualcuno dovrebbe spiegarci come la
Consap s.p.a., che come ogni s.p.a. ha come unico fine il lucro, potrà
trarre profitto dalla erogazione di borse di studio.
Anche la regolamentazione di questo fondo rende evidente la
subordinazione della funzione dell’università alle esigenze del
mercato; sarà consentito ai privati di rimpinguare questo fondo con
donazioni a destinazione vincolata: così ancora una volta uno studente
di Ingegneria Aerospaziale, tanto cara a Finmeccanica ed Alenia, avrà
maggiori possibilità di ottenere una borsa di studio di quante ne avrà
uno studente di Fisica teorica od Archeologia.
Il fondo per il merito sarà poi utilizzato per l’erogazione di prestiti
d’onore, strumento che creerà laureati già indebitati, effetto
devastante in un sistema caratterizzato da precarietà, sfruttamento ed
emergenza salariale.

Al tempo stesso i tagli introdotti lo scorso anno con la 133
continuano a falcidiare il vero sostegno al diritto allo studio,
costituito dal fondo regionale pubblico diretto a garantire il
raggiungimento dei più alti livelli di istruzione anche agli studenti
privi dei mezzi necessari. Singolare è che si dica che non ci sono i
soldi per sostenere il fondo pubblico al diritto allo studio, e poi si
trovino i soldi per istituire un nuovo fondo per premiare gli studenti
che le aziende sceglieranno o per farli indebitare.

A conti fatti, in nome della Meritocrazia viene completamente
stravolto il concetto di Diritto allo Studio: l’accesso e la permanenza
agli studi non viene più garantita dallo stato sociale ma da una S.p.a.
Gli studenti non accederanno più a questi fondi in base alla loro
possibilità economica e materiale ma solo ed esclusivamente tramite
criteri meritocratici.
Su questo vogliamo essere molto chiari: in un’università che non è in
grado di garantire gli studi a studenti con basso reddito e nella quale
permane dunque un’enorme selezione all’ingresso, vincolare il diritto
allo studio solamente a criteri meritocratici significa rafforzare la
selezione di classe!

Altro aspetto fondamentale della riforma riguarda il problema della
precarietà dei ricercatori, problema che sta molto a cuore al ministro
Gelmini come da lei stessa dichiarato in conferenza stampa durante la
presentazione della riforma. Si prevede che i ricercatori che non
abbiano ottenuto un contratto a tempo indeterminato con l’università
dopo sei anni di ricerca, non potranno più intrattenere rapporti di
lavoro con l’università stessa. Si intuisce subito quanto questo
provvedimento sia drammatico alla luce delle direttive introdotte con
le leggi dello scorso anno, le quali prevedono che l’ateneo debba
programmare le assunzioni in funzione dei finanziamenti ottenuti e del
turn-over, ossia in base ai pensionamenti realizzati. Questo,
considerate le reali condizioni della maggioranza degli atenei
italiani, significherà il licenziamento di moltissimi ricercatori alla
fine degli eventuali sei anni di lavoro per l’università. Presto
risolto anche il problema per i ricercatori a tempo indeterminato,
figure fondamentali per gli atenei: la nuova riforma semplicemente li
elimina per sempre. Come dire, se il problema è la fame nel mondo …
eliminiamo gli affamati!

Qualche parola di chiarezza sulla presunta lotta al baronato che il
governo afferma di compiere attraverso questa riforma: da una parte si
prevede una commissione nazionale per attribuire una fantomatica
abilitazione alla docenza, dall’altra si demanda la decisone finale a
commissioni locali; inoltre se non si volesse affrontare un concorso
pubblico, vi è sempre la possibilità di ricevere una chiamata diretta
dalle singole facoltà di ogni ateneo ed essere assunti. Dunque il
potere dei baroni resta inalterato o al più rafforzato.

Da una lettura complessiva di questa riforma emerge un processo di
aziendalizzazione dell’università, che si traduce in socializzazione
delle perdite ed utilizzo ad uso privato dei fondi pubblici. Si
intensifica l’ingerenza del ministero dell’economia sulle università e
sulle loro programmazioni. Si crea un’università ancora più di classe.
Si vara una riforma che prevede un continuo futuro intervento del
governo tramite l’uso dei decreti legislativi. Il tutto dovrà avvenire,
come previsto, “senza oneri aggiuntivi per le finanze dello stato”:
ebbene sì, per questo governo l’università pubblica è un onere, molto
meglio regalarla ai privati!

Noi studenti e studentesse non subiremo passivamente questa riforma,
trasformeremo le facoltà in barricate per riprenderci un’università
pubblica che sia di qualità, di massa, e libera dalle logiche del
mercato, che formi cittadini dotati di senso critico che contribuiscano
allo sviluppo sociale, culturale e scientifico del nostro Paese; per
rivendicare prospettive di vita e di lavoro alternative e contrarie
alla precarietà e allo sfruttamento.

Da oggi dichiariamo guerra a qualunque azienda o privato che vorrà
mettere piede nella nostra università pubblica. Dichiariamo guerra in
primis alla Consap S.p.a., contro la quale intraprenderemo azioni
dirette per riappropriarci del nostro Diritto allo Studio.
Uniremo ovunque le lotte degli studenti con quelle degli insegnanti e
dei ricercatori precari, per creare insieme un argine alla precarietà
dilagante.
All’idea del Governo di un’università privata, dequalificata, di
classe, formatrice di mano d’opera precaria a basso costo, opporremo
fin da subito la nostra idea di università: un’università pubblica con
ingenti finanziamenti statali, un’università accessibile a tutti, di
massa ma anche di qualità, che sia davvero un luogo di alta formazione,
di emancipazione e di ascensione sociale. Un’università democratica,
senza logiche dirigiste e aziendali, nella quale anche gli studenti, i
dottorandi ed i ricercatori possano avere un ruolo di primo piano anche
nei processi decisionali. Un’università sociale, aperta alla società e
non al mercato, luogo di incontro e confronto fra soggetti sociali e
non di interessi privati.

Governo, rettori e privati: siete avvertiti!
Studenti, lavoratori e precari non staranno a guardare!

Il futuro è nostro e ce lo riprenderemo!

Coordinamento dei Collettivi – Sapienza

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