Rosarno 1911 – Quando i negri erano gli operai sardi
Le foto e l’articolo sono da La Nuova Sardegna, 12 gennaio 2010
Itri, 4 luglio 1911 quando i «negri» erano gli operai sardi. La camorra scatenò la furia della gente: 8 morti e 60 feriti.
di Piero Mannironi
SASSARI. Nel suo ripetersi la storia rimescola ruoli e ragioni, paesaggi umani e derive dei sentimenti, paure profonde e torrenti di violenza. E il tempo lava le ferite e sa così far dimenticare il morso doloroso di ricordi nei quali invece si trovano preziose tracce per capire come si declinano la civiltà, il rispetto, la tolleranza e il reciproco riconoscersi. I fatti di Rosarno, con il loro carico di ferocia razzista, sembrano oggi una ferita nuova, una rottura improvvisa e stordente rispetto alla diffusa – e falsa – convinzione che negli "italiani brava gente" sia connaturata la cultura dell’accoglienza e della comprensione "cristiana" della disperazione degli altri. E invece no, non è così.. Perché ci si è dimenticati di infinite storie che raccontano invece una storia diversa e crudele. Storie nelle quali, per esempio, noi sardi siamo stati in passato i «negri», come i disperati di Rosarno. Braccati come animali, inseguiti e colpiti a morte da uomini spinti da una furia razzista. Come accadde nel 1911, a Itri, una cittadina tra Gaeta e Formia (all’epoca in provincia di Caserta), patria di Fra Diavolo, il leggendario brigante diventato poi colonnello dell’esercito borbonico.
In quegli anni occorrevano braccia e sudore per la costruzione del quinto tronco della ferrovia Roma-Napoli. Le Ferrovie Regie e le aziende che avevano in appalto i lavori reclutarono un migliaio di operai sardi. Quasi tutti minatori del Sulcis-Iglesiente. Il perché di questa scelta non è mai stato spiegato, ma è facile immaginare che i sardi, spinti dalla disperazione, erano propensi ad accettare salari più bassi e orari di lavoro massacranti. All’inizio dell’estate del 1911, 500 sardi lavoravano in un cantiere a pochi chilometri da Itri. Vivevano in condizioni disumane: baracche, tuguri, alcuni perfino all’aperto. Su di loro gravavano pregiudizi radicati. Basti pensare cosa aveva scritto sui sardi, anni prima, il responsabile della cancelleria sabauda Joseph De Maistre: «I sardi sono più selvaggi dei selvaggi perché il selvaggio non conosce la luce, il sardo la odia… Razza refrattaria a tutti i sentimenti, a tutti i gusti e a tutti i talenti che onorano l’umanità».
E questo razzismo sprezzante di una classe dirigente altera e incapace di riconoscere la differenza tra arretratezza economica e cultura marginale, si era fatalmente diffuso. Coltivato da luoghi comuni, era diventato un sentimento di ostilità diffuso nei confronti dei sardi. Gli itriani, popolo di agricoltori e di pastori, guardavano con diffidenza e con un certo disprezzo quell’umanità dolente che sopportava fatiche disumane e viveva in condizioni estreme.
In questa situazione di tensione si insinuarono gruppi camorristici che vedevano in quelle centinaia di lavoratori una possibilità di profitto attraverso il pagamento del "pizzo". Ma non avevano fatto i conti con quei "selvaggi", non ne avevano percepito l’orgoglio, la dignità e la loro insofferenza alla minaccia e alla prevaricazione: i lavoratori si organizzarono in una lega operaia per resistere apertamente alle pressioni della camorra. La malavita soffiò allora sul fuoco del razzismo strisciante, alimentando il sentimento di ostilità contro i sardi. La tragedia esplose giovedì 11 luglio 1911. Il pretesto nessuno lo ricorda, ma all’improvviso la tensione si sciolse in una violenza torrida: centinaia di itriani armati si riversarono nella piazza dell’Incoronazione e assalirono un gruppo di operai sardi al grido «Morte ai sardegnoli». Prima bastoni e pietre, poi i fucili. Alcuni operai sardi caddero a terra fulminati. Altri, feriti, vennero raggiunti dalla folla inferocita e linciati.
L’indomani, i lavoratori sardi rientrarono in paese per recuperare i corpi dei loro compagni uccisi. Ma si scatenò una nuova terribile caccia all’uomo che proseguì per ore. Fu una mattanza. Le vittime ufficiali furono otto e sessanta i feriti. Un bilancio comunque impreciso perché si dice che gli itriani nascosero molti cadaveri e molti feriti si spensero dopo molti giorni di agonia. La tragica beffa: alcuni lavoratori sardi vennero arrestati perché rissosi e altri espulsi e rispediti nell’isola. Nel processo sui fatti di Itri, che si svolse a Napoli dal 2 al 5 maggio 1914, l’avvocato Angelo De Stefano sostenne l’incredibile tesi della «legittima difesa di una folla».
Una storia dimenticata, questa. Una storia imbarazzante di razzismo che è giusto ricordare. Come è giusto ricordare che la camorra non incassò neppure una lira dai "barbari sardi", mentre gli itriani continuarono invece a pagare il "pizzo".