di Simone Famularo. Riceviamo e pubblichiamo
Mesi convulsi, gli ultimi nelle facoltà di Medicina di tutto il paese. Un gruppo di studenti, identificato nel “comitato pro-riforma”, saldamente ancorato a una delle associazioni di categoria – il SIGM, segretariato italiano Giovani Medici, organizzazione politica costellata dagli “strani” intrecci con le baronie ospedaliere di mezzo paese – sembra avere ottenuto, dopo la raccolta di migliaia di firme online, vari incontri con il Ministero di viale Trastevere. Al centro del ciclone, la più attesa e desiderata riforma nell’ambito della formazione medica: il cambiamento delle regole per l’ingresso nelle scuole di Specializzazione, futuro obbligato per ogni laureato in medicina, e, ad oggi, regno assoluto della raccomandazione e della schiavitù studentesca nei confronti di professori e primari.
L’obiettivo molto nobile della proposta di riforma è semplice: spazzare via, in un solo colpo, ogni potere baronale nel decidere e predeterminare chi avrà diritto a continuare la propria formazione a livello specialistico. Obiettivo che, sino a poco tempo fa, sembrava impraticabile, visto l’assordante silenzio proprio della totalità delle associazioni di categoria – compreso l’ordine dei medici stesso – nonostante l’assoluta scadenza della formazione medica in questo paese a tutti i livelli.
La necessità della Riforma ha intrecciato il tema più sbandierato in Italia negli ultimi anni di attacco frontale e distruzione del diritto allo studio: il Merito, quel concetto che, da mito fondativo dello studente fatto da solo a parità di risorse – economiche e culturali – iniziali, sull’orma del sistema formativo anglosassone è diventata la ragione per lo smantellamento del sistema pubblico universalistico della formazione, in favore di un doppio sistema – non ancora stretto totalmente nella dicotomia pubblico/privato ma sulla buona strada – che relega alcuni studenti in strutture scadenti e incapaci di fornire un’adeguata formazione, ed altri, chiamati Meritevoli, in programmi avanzati di studio che troppo spesso sono condotti dagli stessi professori che prima si occupavano della formazione per tutti, a cui viene richiesto di istruire maggiormente questi ultimi brillanti pupilli.
Questa proposta di Riforma, dicevamo, è semplice: a partire dalla richiesta di un concorso nazionale – presente già nella maggioranza dei paesi europei – chiede l’abolizione delle prove orali e delle domande aperte (suscettibili evidentemente di favoritismi ad personam), l’abolizione di qualsiasi parametro non previsto direttamente dall’ordine di studi di medicina (come le pubblicazioni, che spesso vengono purtroppo ottenute non con il proprio lavoro ma con corveet di segreteria, o peggio ancora per amicizia; o come la frequenza in un reparto), la valutazione della media conseguita al raggiungimento della laurea durante il proprio corso di studi (e non il voto di laurea, che già è misura anche della media ottenuta).
L’apertura alla proposta di riforma che l’attuale Ministro dell’Istruzione ha avanzato, è un’occasione importante che non può essere persa. Dopo anni in cui solamente i movimenti degli studenti di medicina fuori dalle associazioni di categoria chiedevano di fermare la macchina infernale della Baronia, si è aperto lo spazio politico per praticare un cambiamento duraturo e significativo. Un appuntamento che non possiamo sicuramente perdere, ma che non può essere giocato dentro il diktat temporale che lo sta contraddistinguendo, scandito da una fretta sospetta (come sospetta è la velocità con cui presunti gruppi “apartitici” di studenti siano riusciti ad arrivare ad incontrare il Ministro), che, motivata dal desiderio di non perdere l’occasione e portare a casa il risultato, rischia di favorire solamente un esito: quello di una riforma mancata e approssimativa, regolamento di conti tra antichi Baroni e nuovi “imprenditori” dell’arte Medica, che sancisca una volta per tutte anche in Italia che la formazione specialistica e medica sia affare solamente per uno strato sociale economicamente avvantaggiato, che potrà garantirsi non soltanto una formazione migliore (come negli U.S.A.), ma anche garantirsi un posto di lavoro ben remunerato. Questo è ancora più vero quando si guarda alla realtà: la professione medica, che da sempre è considerata uno dei pochi studi in grado di garantire un posto di lavoro immediatamente dopo la laurea, è cambiata drasticamente, non riuscendo più ad assicurare la sua messianica promessa all’iscrizione. Troppi medici e poche opportunità di lavoro, a cui la risposta, tutta di destra, è semplice: l’istruzione di massa ha fallito, è necessario tornare a un’istruzione d’elite. Poco importa se dietro la sparizione del lavoro si nascondano le rendite di migliaia di medici che occupano posti e poltrone pubbliche lavorando solamente nel privato o, addirittura in alcuni casi, non lavorando affatto.
I criteri sin qui proposti nascondono, a mio avviso, diverse insidie: intanto, la volontà di applicare la riforma anche agli studenti attualmente in corso e in procinto di laurearsi, significa beffare due volte tutte quelle persone – la maggioranza – che con le raccomandazioni non ha avuto niente a che fare, ma che ha dovuto giocare a un gioco sporco tentando di sopravvivere, e che ora vedrebbe tutti i propri sforzi cancellati in un battito d’ali. Inoltre, se da una parte è necessario eliminare le variabili dipendenti dal giudizio personale di un docente interessato, non è pensabile concepire una selezione per le specializzazioni slegata dall’attività di ricerca e dall’internità ad un reparto. Infatti una riforma delle scuole di specializzazione, per essere compiuta, richiede una riforma più sistematica dell’intero insegnamento della Medicina nel nostro paese. Non solo attraverso la ridefinizione di criteri per la possibilità di insegnamento da parte dei docenti (che dovrebbe essere legata alla produzione scientifica e all’attività assistenziale effettiva nell’ospedale universitario, fattore che ad ora ricade interamente sulle spalle dei giovani specializzandi costretti a votarsi agli umori e ai desideri del proprio professore nonostante essi siano in formazione); ma attraverso un ripensamento dell’equilibro tra apprendimento nozionistico e attività pratica del futuro medico. Allo stato attuale, la necessità di “farsi conoscere” in reparto è l’unica spinta che motiva tantissimi studenti a frequentare le corsie di un ospedale, imparando quel poco di pratico che è concesso. Eliminare questo criterio, senza prima ridefinire gli obiettivi formativi pre-laurea, rischia di trasformarsi in una totale inesperienza degli specializzandi all’ingresso in ospedale (problema che già ora devasta la produttività degli ospedali universitari). L’urgenza di una Riforma non può non fare i conti con la qualità delle competenze.
Una possibilità si apre quando si immagina – come suggerito da Giacomo Gabbuti in un suo precedente articolo – un test d’ammissione non vincolato solamente alla corretta processione di crocette su scala nazionale, ma ad altri “espedienti” che permetterebbero di valutare anche altri parametri in maniera imparziale: anonimato delle prove, creazione di commissioni miste segrete sino all’ultimo su scala nazionale che impediscano ai docenti afferenti all’ospedale universitario di valutare i propri candidati.
Ma ancora di più, è necessario affrontare il gravoso problema del disinvestimento statale nei confronti del sistema pubblico dell’istruzione. Infatti questo appare oggi il più grave limite di una frettolosa riforma della formazione specialistica. In un paese dove gli ospedali chiudono, e le università tagliano a più non posso per far quadrare i conti in mancanza di qualsiasi finanziamento pubblico, rincorrendo invece i soldi privati, appare evidente che la compilazione di scale di ingresso nazionale avrebbe soltanto un effetto: con i parametri oggi chiamati “meritocratici” (media dei voti e l’orripilante tempo di laurea, quell’incredibile pretesa di rapidità che sta relegando la formazione superiore a un concorso a punti dove non conta la qualità della conoscenza ma soltanto il tempo che ci si mette a conseguire gli obiettivi minimi), il sistema porterebbe a un solo esito che richiamavo all’inizio del mio articolo. Un doppio binario, dove alcuni studenti avranno accesso ai migliori sistemi formativi in grado di formarli in maniera competitiva per il mercato europeo, e un enorme esercito di riserva, destinato dopo più di dieci anni complessivi di studi a non trovare lavoro o a vedere le proprie aspettative mutilate. Inevitabile, direi, perché le Università che saranno in grado di fornire una formazione adeguata saranno quelle che saranno riuscite ad attirare più capitali privati (e l’incubo delle università private, da sempre sinonimo di risorse maggiori e mezzi superiori rispetto a quelle pubbliche ricorda troppo da vicino il sistema culturale e psicologico del sistema universitario pubblico/privato americano, attanagliato tra una formazione scarsa e una di altissima qualità) a spese della libertà di ricerca, dell’indipendenza accademica e della loro accessibilità economica. Senza finanziamenti, infatti, le università di tutta Italia hanno trovato una sola risposta: aumentare le tasse di iscrizione. Perciò, quelle università – poche – che riusciranno ad adattarsi e a trasformarsi, saranno “meritevoli” e diventeranno poli di eccellenza, accessibili per lo più a chi avrà le risorse in partenza per potersele permettere. Tutte le altre – la maggioranza, stando agli attuali numeri – dovranno inevitabilmente tagliare la propria offerta, continuando nel solco della formazione scadente e dozzinale, senza mezzi e sostentamenti di alcuna natura.
Quando si volge lo sguardo all’Europa, per farla finita con i sistemi medioevali ancora vigenti in Italia, non si può osservare soltanto ciò che è comodo. In paesi come la Francia o i paesi nordici, dove il concorso nazionale è già realtà assodata, esistono anche sistemi di welfare universalistico che garantiscono a qualsiasi studente di accedere agli studi, di mantenersi, di costruire la propria vita fuori da ricatti e, magari, anche con l’aspirazione di migliorare la situazione economica di partenza. Costruire una graduatoria nazionale è passaggio essenziale per debellare il parassitismo e il nepotismo, ma soltanto con un rifinanziamento pubblico della ricerca e dell’istruzione, e con la creazione di sistemi welfaristici in grado di rendere il diritto allo studio non un lusso per alcuni, ma una solida realtà per tutti. Esattamente la direzione opposta che il nostro paese ha intrapreso, guardando con molto più interesse a quegli USA dove la conoscenza è una guerra combattuta tra ricchi, poveri, e nuovi futuri poveri schiacciati dal debito contratto con le banche per finanziare i propri studi.
Il sogno medico rischia di infrangersi su questo scoglio, se sarà lasciata soltanto alla destra di questo paese l’onere e l’onore di trasformare il sistema formativo di questo paese. Ora più che mai, è necessaria una presa di parola forte, soprattutto di piazza ma anche da parte delle nuove rappresentanze elette nell’ultima tornata elettorale universitaria, che fermi questa macchina e si riprenda il dovere di riformare un sistema andato a male, nell’interesse di tutti, senza lasciare nessuno indietro.