medicina in mobilitazione
Blog dell'Assemblea di Medicina della Sapienza, Roma
Ospedali senza medici
Categories: General

di Paolo Biondani e Olga Piscitelli

Mancano
i dottori: 39mila in meno in cinque anni. Pensionati a 58 anni dalla
norma Brunetta. Niente turnover. Così i pronto soccorso collassano e le
liste d’attesa si allungano. Ma le regioni si ribellano

 

Quaranta pazienti ammassati sulle barelle, senza neppure un letto,
tra il viavai di ambulanze e nuovi malati in codice rosso. I più
gravi sono intubati e occupano dalla notte precedente, qualcuno da
più giorni, tutte le 14 postazioni con l’ossigeno. Sono i più
fortunati, perché per gli altri non ci sono più respiratori. Tutti
dovrebbero essere curati in rianimazione, ma in reparto non c’è
posto. Come sempre.

Il pronto soccorso del San Camillo-Forlanini di
Roma
, uno dei più importanti ospedali italiani, sembra una
bolgia dantesca. Medici e infermieri sono stanchi, stressati,
esasperati. In barella ormai da quattro giorni c’è un ragazzo
entrato in coma per una meningite: sta riprendendosi, forse lo
dimettono domani, è guarito in emergenza senza poter essere
ricoverato. Dall’ambulanza arriva l’ennesima lettiga. È un anziano
ed è moribondo: arriva da una delle tante cliniche private
convenzionate che scaricano i casi disperati sulla sanità pubblica,
così i loro tassi di mortalità restano bassi e i profitti alti.

La sua barella viene incredibilmente contesa tra il pronto
soccorso, che non ha letti per il povero vecchietto, e l’ambulanza
che deve ripartire. Basta guardare in faccia i dottori per vedere
le occhiaie dei turni di notte, dei troppi straordinari non pagati,
e l’umiliazione di una professione svilita.

Ogni infermiere, che rispettando le norme dovrebbe concentrarsi al
massimo su due pazienti in pericolo di vita, in realtà si affanna
ad assisterne otto e intanto lo chiamano perché è arrivata la
barella numero 41. Questa è l’area dei malati gravi del San
Camillo, inaugurata nel 2002, dove in teoria ci sarebbe posto solo
per 14 lettighe, non per un triplo carico contemporaneo di codici
rossi e gialli. Qui un medico su cinque ha un contratto senza
futuro: precario come i pazienti che è costretto a curare senza
ricovero.

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E il pronto soccorso romano non è un’anomalia: è il sintomo di una
patologia che sta contagiando quasi tutte le regioni italiane, con
poche significative eccezioni. Dal Lazio alla Puglia, dalla
Calabria assediata dalla mafia al Veneto ricco e avanzato, il
rigore di bilancio, imposto dallo stesso governo che spreca mezzo
miliardo di euro per tre giorni di show del G8, sta creando non
solo il disastro di una sanità senza posti letto, ma perfino
l’assurdità di una medicina senza medici. Gli ospedali sono in
crisi per mancanza di camici bianchi ed eccesso di precari.

Il problema riguarda reparti cruciali, dalla pediatria alla
cardiologia, ma in prima linea nella trincea dei disagi sono le
strutture di pronto soccorso, che per milioni di italiani sono il
simbolo della buona sanità pubblica. Il dramma nazionale di una
sanità in deficit di personale e di letti per i malati gravi ha
radici che affondano nello spaventoso debito pubblico, accumulato
dall’Italia prima di Tangentopoli, e nelle più recenti voragini
aperte da alcune giunte regionali, tra cui primeggiano il Lazio a
cui il governatore Storace ha lasciato un deficit-shock da 10
miliardi che oggi non si riesce ancora a ripianare; la Sicilia di
Salvatore Cuffaro che arricchiva le cliniche mafiose.

A partire dal 2006 i ministri dell’Economia, da Padoa Schioppa a
Tremonti, impongono piani di rientro e tagli di spesa sotto pena di
commissariamento. Cinque regioni (Lazio, Campania, Sicilia, Abruzzo
e Molise) sono ancora sulla graticola, ma le assunzioni vengono
bloccate quasi ovunque. Il risultato è che i medici in uscita non
vengono sostituiti.

E le emergenze sono coperte da plotoni di «precari con poca
formazione e nessun diritto, che però costano solo 1200- 1300 euro
al mese», lamenta Giuseppe Garraffo della Cisl. Così le corsie
restano scoperte, ma poche regioni rendono noti i dati nel timore
di perdere consensi. Un dato su tutti: nel 2004 l’Istat aveva
censito 319 mila medici occupati, nel 2008 ne ha contati 280 mila:
sono 39 mila in meno. Dallo stesso anno, ad accelerare l’esodo dei
dottori è il decreto Brunetta. Mentre la finanziaria 2009 impone
ulteriori tagli dei posti letto per le malattie acute. Tra tante
leggine che invece favoriscono la sanità privata e le industrie dei
farmaci. Presentate come manovre scollegate, stanno producendo lo
stesso effetto complessivo della riforma Gelmini sulla scuola: non
osando dichiarare guerra alla sanità pubblica, la si sfascia
dall’interno.

Trasformando le regioni in esecutori del collasso. In Veneto se n’è
accorto l’assessore leghista Sandro Sandri, che dal 2009 scrive
lettere di fuoco al ministro Renato Brunetta, denunciando «una vera
e propria emergenza per il personale sanitario», che ormai è
«pesantemente inferiore al minimo vitale». Nel carteggio, di cui
"L’espresso" ha una copia, Sandri stigmatizza «una carenza di circa
mille medici e 2 mila infermieri » solo in Veneto, con
«rallentamento delle cure e allungamento delle liste d’attesa».
Brunetta è bersaglio anche di altre regioni, perché nel giugno del
2008 il famoso articolo 72 del suo decreto prepensiona (anche) i
medici pubblici, senza sostituirli, ad appena 58 anni. Secondo i
calcoli dell’Anaao-Assomed, questa legge rischia di far sparire
altri 17.907 dottori in reparti già spaventosamente sguarniti.
Contro la grande riforma però rumoreggiano anche le regioni di
centrodestra. Per questo il governo fa melina e pasticcia con l’età
pensionabile dei medici, cambiandola per quattro volte in due anni.

Nel marzo 2009 si torna alla regola dell’anzianità. Ma il
successivo 5 agosto risorge la legge Brunetta, che lascia ai
direttori generali di nomina politica il libero arbitrio di
"rottamare" i medici con più di 40 anni di contributi, compresi gli
studi universitari, con l’eloquente eccezione dei 2 mila primari. E
il 4 marzo, in piena campagna elettorale, nella legge sui "lavori
usuranti" spunta un emendamento firmato da Antonio Tomassini,
medico, eletto parlamentare del Pdl dopo la condanna definitiva per
un grave caso di malasanità e oggi presidente della commissione del
Senato: i dottori andranno in pensione solo dopo «40 anni di
servizio effettivo». Per i camici bianchi è il caos. «L’emendamento
è scritto malissimo: non abroga la legge Brunetta e comunque
trascura che la giurisprudenza equipara gli anni di servizio a
quelli di contributi, per cui rischia di essere solo fumo
elettorale», spiega Carlo Lusenti, segretario dell’Anaao. Massimo
Cozza, della Cgil medici, concorda: «La rottamazione non è abolita,
per cui cresce l’iniquità tra medici prepensionabili a 60 anni e
colleghi che restano fino a 70; mentre 13 mila precari ospedalieri
continuano a non vedere alcuno spiraglio di stabilità». Ai medici
rottamati resta solo il dilemma se ricorrere ai tribunali o passare
al privato.

Gianfranco Franco è il pioniere dell’angioplastica in Veneto, con
oltre 3 mila interventi salva-coronarie. Dal ’99 ha formato
un’équipe (4 medici, 4 tecnici e 6 infermieri specializzati) che
ogni anno opera 350 pazienti all’ospedale Mater Salutis di Legnago.
Problema: ha 61 anni, per cui il dirrettore generale lo ha
prepensionato a forza, applicando la legge Brunetta solo a lui e ad
altri 7 chirurghi e neurologi di un ospedale che ha già 40 medici
in meno dell’organico. «Non me l’aspettavo e non pensavo di
meritarlo: non mi sento affatto un medico finito», è l’amaro
commento del professore: «Mi rattrista soprattutto l’effetto
discriminatorio di una scelta verticistica che taglia alcuni medici
ma non altri, senza studiare le reali esigenze, i rami secchi e i
veri sprechi. Non voglio disperdere 30 anni di studio e lavoro:
finirò per passare alla sanità privata. E mi dispiace ».

Contro Brunetta è di nuovo insorto Sandri, che ora
si ritrova il ministro pure candidato sindaco a Venezia. La sua
legge ha provocato un’ondata di "messe a riposo" in tutta Italia.
Solo il Policlinico di Milano ha prepensionato 58 medici in una
settimana, spingendo il superdirettore regionale ciellino, Carlo
Lucchina, a frenare l’emorragia con una circolare. Tra i dottori
lombardi, i rottamandi sarebbero scesi a 350. Ma con quattro leggi
in due anni, si annunciano valanghe di ricorsi. Nel Lazio è stato
rimosso a 59 anni Francesco Lucà, segretario nazionale del
sindacato dei radiologi, che ha già ottenuto il reintegro: «Mi
hanno licenziato sei giorni dopo il varo della legge, mentre ero in
vacanza, ma il 4 febbraio i giudici hanno sospeso il provvedimento,
perché "contraddice gli obiettivi di valorizzazione delle
professionalità".

Ora che è di nuovo cambiata la norma, però, non so cosa mi
succederà». I vuoti in corsia vengono colmati, specie nelle regioni
più in deficit, con i precari. Solo negli ospedali di Cosenza se ne
contano 40, con una dottoressa-record che firma contratti a termine
da nove anni e mezzo. In compenso tra Catanzaro e Reggio la giunta
Loiero ha appena varato circa 700 stabilizzazioni. Annamaria
Ferrari, della società italiana di medicina d’urgenza, spiega che
«la carenza di medici e infermieri è un problema in tutta Italia,
ma a soffrire di più è il pronto soccorso, stretto fra tagli di
letti per malati gravi, iperafflusso di pazienti e personale in
fuga da stress e superlavoro».

Le regioni in controtendenza sono poche, quasi tutte con una forte
sanità pubblica. La Toscana, nel 2009, ha perso 2.297 medici
pubblici, ma ne ha assunti 3.420, guadagnando così 294 dottori.
Nell’ultimo triennio l’Emilia ha regolarizzato 511 precari. E dal
2001 i medici di ruolo sono cresciuti da 8.597 a 9.438. L’assessore
Giovani Bissoni spiega però che «restano carenze croniche in
settori come pediatria e medicina d’urgenza: per colmarle,
bisognerebbe adeguare il sistema universitario delle scuole di
specialità ai reali fabbisogni». Anche in Puglia l’assessore
Tommaso Fiore conferma «una carenza impressionante di medici e
infermieri: ne abbiamo 12 mila in meno dell’Emilia, che ha una
popolazione equivalente».

I vuoti in corsia sono ancora più evidenti nelle regioni con il
deficit sanitario più alto, come la Campania. In Sicilia
l’assessore Massimo Russo rivendica di aver «ridotto gli sprechi di
700 milioni in 18 mesi», ma con tagli dolorosi sia di letti (meno
2.500) che di personale. Lusenti dell’Anaao vede un futuro nero:
«Ormai i medici restano precari fino a 40 anni e già a 50
cominciano a temere la rottamazione, per cui sono sempre più
ricattabili da direttori generali lottizzati e magari maneggioni.
Per le cliniche invece i tagli sono minimi: anzi, da quando il
governo ha abolito il divieto di cumulo, i privati possono assumere
a paghe più basse i professori espulsi dalla sanità pubblica. Ma il
conto finale lo pagano sempre i contribuenti».

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