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Questo testo e’ apparso per
la prima volta su ’la Repubblica’ il 15 marzo 1980, ma appare negli appunti
dell’archivio Calvino con il titolo ’La coscienza a posto’. E’ stato
ripubblicato in Romanzi e racconti (Meridiani Mondadori, 1994, vol. 3, pp.
290-293) come ’La coscienza a posto (Apologo sull’onesta’ nel paese dei
corrotti)’.
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi,
ne’ che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti piu’ o
meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran
numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne
aveva bisogno perche’ quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si
e’ piu’ capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si
potevano avere solo illecitamente, cioe’ chiedendoli a chi li aveva in
cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori,
in genere gia’ aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in
precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo
circolare e non privo di una sua autonomia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da
alcun senso di colpa, perche’ per la propria morale interna, cio’ che era
fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni
gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalita’
formale, quindi, non escludeva una superiore legalita’ sostanziale.
Vero e’ che in ogni transazione illecita a favore di entita’ collettive e’
usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa
ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione:
quindi l’illecito che, per la morale interna del gruppo era lecito, portava
con se’ una frangia di illecito anche per quella morale.
Ma a guardar bene, il privato che si trovava ad intascare la sua tangente
individuale sulla tangente collettiva, era sicuro di aver fatto agire il
proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioe’
poteva, senza ipocrisia, convincersi che la sua condotta era non solo lecita
ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale,
alimentato dalle imposte su ogni attivita’ lecita e finanziava lecitamente
tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare.
Poiche’ in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta, ma
neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe
potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse), la finanza pubblica serviva
ad integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attivita’
che sempre in nome del bene comune si erano distinte per via illecita.
La riscossione delle tasse, che in altre epoche e civilta’ poteva ambire di
far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza di atto
di forza (cosi’ come in certe localita’ all’esazione da parte dello Stato si
aggiungeva quella di organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di
forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur provando
anziche’ il sollievo del dovere compiuto, la sensazione sgradevole di una
complicita’ passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con
il privilegio delle attivita’ illecite, normalmente esentate da ogni
imposta.
*
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di
applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere
e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni
per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziche’
di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si
trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro
centro di potere. Cosi’ che era difficile stabilire se le leggi fossero
usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle guerre tra
interessi illeciti oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti
istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri
di potere e di interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente, una tale situazione era propizia anche per le associazioni a
delinquere di tipo tradizionale, che coi sequestri di persona e gli
svaligiamenti di banche si inserivano come un elemento di imprevedibilita’
nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi
sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme
inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore
che usavano quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione
fuorilegge e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra
tutte le categorie di cittadini illustri e oscuri si proponevano come
l’unica alternativa globale del sistema. Ma il loro effetto sul sistema era
quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile e ne
confermavano la convinzione di essere il migliore sistema possibile e di non
dover cambiare in nulla.
Cosi’ tutte le forme di illecito, da quelle piu’ sornione a quelle piu’
feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilita’ e
compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il
loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la
coscienza a posto. Avrebbero potuto, dunque, dirsi unanimemente felici gli
abitanti di quel paese se non fosse stato per una pur sempre numerosa
categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
*
Erano, costoro, onesti, non per qualche speciale ragione (non potevano
richiamarsi a grandi principi, ne’ patriottici, ne’ sociali, ne’ religiosi,
che non avevano piu’ corso); erano onesti per abitudine mentale,
condizionamento caratteriale, tic nervoso, insomma non potevano farci niente
se erano cosi’, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente
valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei
vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la
soddisfazione propria alla soddisfazione di altra persone.
In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli
onesti erano i soli a farsi sempre gli scrupoli, a chiedersi ogni momento
che cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri,
indignarsi, predicare la virtu’ sono cose che riscuotono troppo facilmente
l’approvazione di tutti, in buona o in mala fede. Il potere non lo trovavano
abbastanza interessante per sognarlo per se’ (o almeno quel potere che
interessava agli altri), non si facevano illusioni che in altri paesi non ci
fossero le stesse magagne, anche se tenute piu’ nascoste; in una societa’
migliore non speravano perche’ sapevano che il peggio e’ sempre piu’
probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare
che, cosi’ come in margine a tutte le societa’ durate millenni s’era
perpetuata una controsocieta’ di malandrini, tagliaborse, ladruncoli e
gabbamondo, una controsocieta’ che non aveva mai avuto nessuna pretesa di
diventare "la" societa’, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della societa’
dominante ed affermare il proprio modo di esistere a dispetto dei principi
consacrati, e per questo aveva dato di se’ (almeno se vista non troppo da
vicino) un’immagine libera, allegra e vitale, cosi’ la controsocieta’ degli
onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al
costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversita’,
di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe
finito per significare qualcosa di essenziale per tutti, per essere immagine
di qualcosa che le parole non sanno piu’ dire, di qualcosa che non e’ stato
ancora detto e ancora non sappiamo cos’e’.