(da lastampa.it) Crollano le
iscrizioni tra i ragazzi usciti dalla maturità. Ma sono soprattutto i figli
delle classi più deboli a rinunciare. È stata una sbornia d’inizio millennio,
drogata dall’esplosione delle lauree brevi e dal proliferare degli atenei sotto
casa. È durata poco. E adesso il mito delle «élite per merito» sembra destinato
a restare tale. Altro che avvicinarci alla media Ocse per tasso di universitari
e laureati; abbiamo ricominciato a distanziarci. E l’Università sta diventando
affare per pochi. Sempre meno e sempre più ricchi. E l’alta formazione di massa?
Si sta lentamente affievolendo, stritolata tra disillusione, crisi economica e
tagli ai finanziamenti.
La tendenza sembra consolidarsi da qualche anno,
quando – dopo il boom a cavallo del 2000 – le immatricolazioni hanno
inesorabilmente cominciato a scendere. In cinque anni abbiamo perso 40 mila
matricole: erano 324 mila del 2005; 286 mila a ottobre 2009. Il calo
demografico, si dirà. E invece no. O, almeno, non solo. Cinque anni fa 56
ragazzi di 19 anni su cento (il 73 per cento dei diplomati) si iscrivevano
all’università. Oggi siamo sprofondati in basso: all’ultimo anno accademico si
sono iscritti il 47 per cento dei ragazzi dei 19enni e nemmeno il 60 per cento
di chi ha superato l’esame di maturità.
«La riforma del 3 2 ha prodotto un’ondata di entusiasmo. Qualcuno ha
creduto che l’Università, diventando più corta, fosse diventata più facile»,
spiega Daniele Checchi, docente di Economia politica alla Statale di Milano.
Quando si è capito che così non era la corsa agli atenei si è arrestata, ma a
farne le spese non sono stati tutti: nel 2000 un neoiscritto su cinque era
figlio di persone con al massimo la quinta elementare; nel 2005 la percentuale è
scesa al 15 per cento. Poi ancora giù, quasi un punto all’anno: 14 per cento nel
2006, 13 nel 2007. Ora siamo al 12. Di anno in anno le matricole scendono,
portandosi appresso i giovani delle classi sociali più deboli. Gli altri –
quelli con genitori laureati – crescono poco alla volta. I figli della classe
media – genitori diplomati – tengono botta. «Forse sono cambiate le aspettative
sul valore dei titoli di studio», dice il professor Piero Cipollone. Per anni,
in Banca d’Italia, ha studiato i costi del sistema formativo, oggi presiede
l’Istituto per la valutazione del sistema dell’istruzione e dice che «la laurea
non offre più un consistente valore aggiunto: un laureato spesso guadagna poco
più di un diplomato, a volte addirittura meno. Non mi meraviglia la fuga dei
figli delle classi sociali meno abbienti: l’università oggi è un costo, ma non
sempre il risultato vale l’investimento».
La crisi economica dell’ultimo
anno e mezzo ha pesato, e non poco. Molti hanno battuto in ritirata. Chi ha
tenuto duro fa gli straordinari: l’80 per cento di chi ha alle spalle una
famiglia a basso reddito prova a laurearsi lavorando, e una buona parte rientra
sotto la voce «lavoratori-studenti». Otto ore al giorno cercano di guadagnarsi
da vivere; nel tempo che rimane provano ad agguantare una
laurea.
L’austerity imposta dal governo agli atenei ha fatto il resto.
«Molte università hanno pensato bene di controbilanciare il taglio dei
finanziamenti ministeriali aumentando le tasse d’iscrizione», racconta Diego
Celli, presidente del Consiglio nazionale degli studenti universitari. Di questo
passo – è il timore del professor Checchi, che da tempo si occupa delle
disuguaglianze sociali nell’accesso all’istruzione – «il rischio è che il
divario si allarghi ulteriormente, anche se sarei cauto nel dire che i figli
delle classi medio-basse stanno fuggendo dagli atenei».
Vero. Ma le
barriere restano, anzi, sembrano sempre più massicce, e non solo in ingresso.
«Gli steccati non sono stati superati», ammette Checchi. «Negli ultimi vent’anni
l’ingresso forse è diventato più democratico, ma l’esito finale no. Le
probabilità di abbandono pendono fortemente dalla parte di chi ha redditi
bassi». Studi recenti di vari istituti, tra cui la Banca d’Italia, sembrano
dargli ragione. In Italia il 45 per cento degli universitari non arriva alla
laurea. La presenza in famiglia di un genitore laureato, non solo aumenta la
probabilità di iscrizione all’università di oltre il 15 per cento rispetto a
genitori con la licenza di scuola media, ma riduce allo stesso modo per cento le
probabilità di abbandono.
Forse è l’effetto di decenni trascorsi a
galleggiare senza una vera politica di sostegno all’istruzione. «Gli enti per il
diritto allo studio funzionano su base regionale – racconta Checchi – assegnano
le idoneità ma poi le finanziano finché ci sono i soldi. È una farsa: le
graduatorie ci sono, i soldi no. Così tanti che avrebbero diritto a un aiuto non
ricevono nemmeno un euro». E così, addio università. Quasi 200 mila studenti
l’anno ottengono una borsa di studio, ma tra gli aventi diritto uno su quattro
resta senza. Solo otto regioni riescono a sostenere tutti quelli che hanno i
requisiti. In altre non si supera il 50 per cento. «Per di più anche dove sono
garantite per tutti, le borse non tengono conto del reale costo della vita»,
attacca Diego Celli.
ANDREA ROSSI (La Stampa)