medicina in mobilitazione
Blog dell'Assemblea di Medicina della Sapienza, Roma
La violenza contro le donne nei Cie. Un fatto “privato”
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La drammatica vicenda di Joy e Hellen

8 / 2 / 2010
da Globalproject.info

 

Ci sono cinque donne. Si chiamano Joy, Hellen,
Florence, Debby e Priscilla. Hanno partecipato, quest’estate, alla rivolta
scoppiata nel Cie di via Corelli a Milano. Joy ed Hellen denunciano poi un
tentativo di stupro da parte del vicequestore, Vittorio Addesso. Si sta
aspettando la loro scarcerazione dalla casa circondariale di Como, il 12
febbraio prossimo. Il timore (assai fondato) è che, uscite di lì, possano
finire, di nuovo, in un altro Cie. L’appuntamento, per tante, è dunque fissato,
il 12, davanti al carcere di Como, per aspettarle. Improvvisamente, arriva la
notizia che Joy ha ricusato l’avvocato che la seguiva sin dall’inizio nel
processo d’appello per la rivolta di Milano e nella denuncia per tentata
violenza sessuale. Joy ha ritenuto di affidarsi all’avvocato d’ufficio.
L’avvocato d’ufficio è un personaggio che, di solito, nei film, si alza in piedi
e dichiara: “Mi appello alla clemenza della corte”. Sarà impazzita, Joy, o
qualcosa – qualcuno ‒ l’ha indotta ‒ convinta ‒ a fare tale scelta? E
perché?

Questa storia brutta è utilissima per riflettere
sul tema della violenza sulle donne migranti, nei Cie, in termini generali. Che
cosa siano lager come i Cie, a che cosa porti l’introduzione di un abominio
giuridico come il “reato di clandestinità” non c’è bisogno di spiegarlo a chi
legge queste righe. Ma forse va riflettuta meglio la contraddizione palese di
una società che non ha ancora risolto il nodo privato/pubblico. Questo Paese ci
appare perfettamente femminilizzato. Nei giornali, sul lavoro, in politica la
differenza femminile sembra rappresentare la cifra costituente di ogni recesso
del reale: eccole le donne, finalmente fuori dal privato, protagoniste dello
spazio pubblico. Si ritorna, però, al problema del privato e del pubblico quando
vengono allo scoperto le scappatelle sessuali di un Premier imbarazzante (altri
casi si aggiungeranno, uno più incredibile dell’altro). All’istante, si
riassegnano i ruoli (lui il potente, lei la vittima, la poverella, la dannata) e
con essi le lamentazioni, le indignazioni, la rabbia. Seguono serrate
discettazioni che servono a dire che chi è pubblico deve fare ben attenzione al
privato. Si ricorda l’insegnamento del femminismo.

Che cosa accade, però, quando i corpi sessuati
(femminili) in questione sono quelli delle immigrate straniere chiuse nei Cie?
Non è difficile immaginare che essi potranno dover subire, nell’anomia e
“informalità” consentita dal lager, molti soprusi e abusi, anche di carattere
sessuale. Altro che “papi”. Nel chiuso di un luogo che lo Stato si è dato per
difendere soprattutto la “sicurezza” di altre donne (le “native”, serie A), il
tema non diventa pubblico, non crea particolare scandalo né suscita alcun
appassionato dibattito. Fatica a uscire da uno spazio recintato (risbuca il
“privato”, nel suo significato autentico e originario) che genera dominio e
dipendenza, non assume la dignità politica di una battaglia imprescindibile per
chi, tra le donne, nel femminismo, sta ben salda nel “pubblico” dei giornali e
delle università.

Francamente, che libertà, che diritti, che futuro
possono essere dati, davvero, per le donne, se si tace su questo circuito
osceno, che altre donne (serie B) sono costrette a sopportare? Non è forse
questa – e non altre ‒ la vera essenza del dilemma privato/pubblico che andrebbe
sviscerato (aggiornato), di questi tempi? Non è per questo che vale la pena di
indignarsi, di sentirsi offese?

Per maggiori informazioni

http://noinonsiamocomplici.noblogs.org/

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